Maurizio Ongaro: My Fair Lady.
Ovvero: la mia più bella ed amara soddisfazione professionale.
Nell'inverno del 1985/86 ero il capocentro di un'azienda sita nella periferia nord di Milano . Nelle brumose campagne dell'hinterland.
Il mio compito consisteva innanzi tutto nell'installare il neonato elaboratore elettronico. Dopo di ciò, man mano, approntare e coordinare le varie procedure informatiche. Era un incarico da "pioniere". Ovvero la mansione da me ricoperta non esisteva prima della mia assunzione. Il che vuol dire doversi inventarsi tutto. Ufficio, scrivania, mansionario, limiti, tattiche regole etc. Supplendo con tanto entusiasmo alle varie carenze, sia personali che strutturali.
Ripensandoci, quello del "pioniere" è sempre stato il mio destino . E' accaduto in tutte le aziende in cui ho lavorato sinora.
Quello è stato un periodo molto intenso della mia vita. Come spesso accade, in poco tempo avevo cambiato tutto: il lavoro, la ragazza, l'automobile.
Il lavoro mi occupava intensamente. Così intensamente che non riuscivo a trovare, a volte, nemmeno il tempo per poter fare pipì. E non sto scherzando. Mi è capitato diverse volte che, dopo un paio di ore, il trascurato stimolo fisiologico crescesse sino a diventare sempre più intenso ed impellente. Fino a quando dovevo piantavo in asso tutto e tutti per precipitarmi di corsa in bagno.
Rimanevo spesso in ufficio fino a tardi. Cercando di risolvere la mole di lavoro con gli straordinari. Anche perché per me tutta quella faccenda era vissuta come una scommessa personale. Su cui avevo puntato tutto me stesso.
A tal fatta ricordo che una notte siamo rimasti in ufficio fin dopo mezzanotte. Eravamo in due, un consulente informatico ed io. Stavamo attardandoci a fare le prove di un programma. Man mano che controllavamo i risultati provvedevamo a modificare i programmi. E così, di gradino in gradino, con la meta che si avvicinava sempre di più, avevamo deciso di vedere la fine di quella faccenda. La parola d'ordine era: "...non si va a casa fino a che il programma non funziona."
Mentre eravamo concentrati sul nostro problema, alzando gli occhi, notai una guarda giurata che si stava avvicinando al mio ufficio con la pistola in pugno. Non era stata avvisata della nostra presenza in azienda e ci aveva scambiati per ladri.
Era spaventatissimo. Ripensandoci ora non riesco a trattenere un sorriso ma, se quella sera ci fossimo spaventati anche noi ed avessimo fatto qualche mossa un po' brusca, poteva scapparci una bella scena da film western.
Ero arrivato ad un punto in cui mi serviva un aiuto. Soprattutto per le mansioni manuali. Ve ne erano alcune che non avevo né il tempo né la voglia di svolgere personalmente e stavano divenendo sempre più impellenti.
Una di queste era la distruzione dei tabulati. Erano parecchi e di carattere confidenziale. Non si poteva delegarne la distruzione ad altri. Bisognava distruggerli per forza in sala macchine. A tal fatta mi ero accorto che, con qualche accorgimento, si poteva utilizzare all'uopo una taglierina che mi ero inizialmente procurato con scopi opposti. Doveva servire a separare i tabulati, eliminando le piste di trascinamento e dividendo i fogli ad uno ad uno.
Regolando diversamente i vari coltelli della taglierina invece ogni tabulato veniva tagliato in tante strisce di carta larghe dieci centimetri e lunghe meno di uno. La distruzione ideale di un documento. Altrimenti l'alternativa era quella di stracciarli manualmente. Foglio per foglio: un lavoraccio immane.
In compenso la taglierina veniva usata poco per il suo scopo iniziale. Vi era un'innata pigrizia nel separare i tabulati. Si preferiva archiviarli così com'erano, senza alcun intervento aggiuntivo. A mio avviso la consultazione era pressoché impossibile, ma gli utenti pur di non dover separare i listati preferivano fare così. Contenti loro...
Dovevo ancora imparare che molte liste servono a poco, più esattamente vengono consultati poco. Si preferisce utilizzare altri strumenti quali le interrogazioni a video o le stampe del solo particolare necessario.
In quanto alla distruzione era imperativo farla eseguire agli utenti. Se me ne fossi occupato io, anche saltuariamente, quella mansione sarebbe divenuta parte integrante dei miei compiti. A parte il fatto che di pari passo con la creazione di nuove procedure informatiche, la mole di tabulati tendeva ad aumentare esponenzialmente, il mio scopo era quello di rendere i singoli utenti completamente autosufficienti. Il mio motto era: "Anziché darvi un pesce al giorno, io vi do una canna da pesca e provvederete da soli al vostro sostentamento."
Purtroppo quei dannato mucchio di cartaccia giaceva nel mio "territorio" ed era ormai indiscutibilmente sotto la mia giurisdizione. E quello era stato il mio unico errore. Quando li portavano da me, con il velato intendimento di imputarmene la distruzione, io rispondevo immancabilmente con il breve sermoncino sull'autosufficienza degli utenti; e loro, seraficamente, li depositavano in sala macchine, ripromettendosi di provvedere alla loro distruzione qualora avessero avuto un po' di tempo.
Cioè mai.
Un classico esempio di "tennis da scrivania".
Era altresì inutile sperare in un verdetto risolutorio da parte del capo. Il diktat era stato: "distruggete i documenti". Senza assolutamente specificare a chi toccasse tale ingrato compito. E tale distruzione era unanimemente considerata dequalificante e nessuno ambiva svolgerla. Nemmeno saltuariamente, perché come abbiamo visto voleva dire automaticamente prenderseli definitivamente in carico.
Cosicché si era creato un sottile braccio di ferro psicologico. Sia gli utenti che il sottoscritto aspettavano il maturare degli eventi. Mi resi conto ben presto che quella mole di cartaccia avrebbe finito col travolgermi. Sia moralmente che praticamente. Se non avessi, al più presto, trovato una soluzione, tale ingrato compito sarebbe franato sulla mia testa.
Vi era, infine, un'ultima considerazione che giocava un ruolo decisivo nella faccenda. Come ultimo arrivato ero tenuto costantemente sottocchio. Un fenomeno tipico di ogni assembramento sociale. E la distruzione di quei fogli era divenuto il mio piccolo Rubicone. Se riuscivo ad evitare di distruggerli personalmente non avrei stentato molto ad introdurre la nuova era di autosufficienza degli utenti. Altrimenti, conseguentemente, tutti i vari compiti che speravo di delegare, mi sarebbero prontamente ritornati indietro. Ed avrei fallito il mio scopo.
Una soluzione di compromesso poteva essere l'assunzione di un personaggio atto a svolgere tutto quel tipo di mansioni. Ma il budget era talmente striminzito da non permetterla assolutamente.
Occorreva trovare un escamotage. Finalmente lo trovai.
M. era uno dei manovali che lavoravano in stabilimento. Era un ometto quasi sulla trentina, piccolo e rotondetto, un po' pelato e con gli occhiali ed un paio di folti baffi. Somigliava vagamente a un Maurizio Nichetti con il fisico da Lino Banfi. Era un handicappato fisico, assunto mediante le apposite liste dell'ufficio di collocamento. Aveva il braccio destro offeso. In pratica non riusciva né a stenderlo né ad aprire la mano. Mi disse in seguito che fu a causa del parto mediante forcipe.
Era unanimemente considerato un lavativo. In effetti la sua occupazione sembrava quella di non fare assolutamente niente.
Andai dal capo ufficio del personale e gli proposi di affidarmelo, anche a part-time, perché avevo bisogno di aiuto in varie incombenze, quali, appunto, la distruzione dei tabulati. La mia idea era abbastanza semplice: avevo bisogno di aiuto, il budget non lo consentiva. Cercavo quindi di utilizzare una risorsa disponibile ovvero di trasformare quello che attualmente per l'azienda era un costo secco in un ricavo, se non addirittura in un utile. Non ci si perdeva nulla a tentare.
Il
capo ufficio mi guardò scettico e mi disse: "...A
prescindere dalle limitazione fisiche dell'individuo, io sono dubbiosissimo
che possa esserti d'aiuto. Anzi, per essere sincero, non ci credo neanche se
lo vedo.
Comunque - concluse - se vuoi tentare, fai pure."
Detto fatto andammo alla ricerca di M. Lo cercammo in lungo ed in largo per tutto lo stabilimento. Fu giusto in quell'occasione che ebbi finalmente modo di visitare tutta l'azienda in tutti i suoi più remoti angoli.
In ogni luogo la scena era medesima: noi chiedevamo se avevano visto M. e ricevevamo ovunque la stessa vaga risposta, sotto forma di un'alzatina di spalle, accompagnata da un sorrisetto malizioso. Come per dire che M., prima di pranzo, non sarebbe riuscito a vederlo nessuno.
Finalmente lo trovammo. Era negli spogliatoi. In mutande, seduto su di una sedia, mentre si arrabattava a cucirsi un bottone oppure uno strappo dei pantaloni.
Ricevette seduta stante, da parte del capoufficio, un solenne cazziatone che si concluse con l'intimazione di mettersi a mia disposizione.
Sinceramente avrei preferito essere presentato diversamente. Vista così, collaborare con me sembrava quasi una punizione. Comunque, ormai era fatta. Uscimmo e lo lasciammo con l'intesa di raggiungermi nel mio ufficio.
Mentre lo attendevo, pensai a come riuscire a fare presa su di lui. Il problema era questo: da ormai una decina d'anni M. non faceva nulla, pur venendo egualmente retribuito. Al massimo riceveva solo cazziatoni e rimbrotti. Come potevo convincerlo ad aiutarmi? Diciamola tutta: come potevo convincerlo a lavorare?
Stabilii che il primo punto era di guadagnarmi la sua stima. Doveva essere ormai avvezzo ad atteggiamenti di superiorità che sfociavano in rapporti quasi da caserma. Oltretutto il mio unico vantaggio nei confronti degli altri colleghi era che ero arrivato da poco. Non avevo mai avuto rapporti con lui.
Quindi partivo da zero, senza che il nostro rapporto fosse influenzato da episodi precedenti, di nessun tipo.
Arrivò, lemme-lemme, nel mio ufficio di lì ad una buona mezz'ora. Tutto sommato non mi attendevo nulla di diverso. Iniziai subito a trattarlo come un collega e non come un subalterno, o peggio, cosa che avevo già visto fare diverse volte. Gli offrii un caffè.
Mentre lo sorseggiavamo gli spiegai il mio problema. Intanto lo osservavo attentamente. Puntai tutte le mie carte sulla responsabilizzazione. Evitai atteggiamenti falsamente paternalistici o amichevoli. Quindi, anziché dirgli: "Fai questo"!, gli spiegai perché bisognava fare quel lavoro, sorvolando le varie correlazioni "politiche" connesse.
Mi guardò un po' ironico. Credo che fosse convinto che lo stessi prendendo in giro. Tornammo in ufficio e gli feci vedere come doveva essere svolto il lavoro. Infilai un tabulato nella taglierina, regolai le varie manopole e rotelle e gli feci vedere come doveva avvenire la distruzione di un paio di pagine.
Utilizzai un espediente: gli feci vedere il tutto lavorando con una mano in tasca. Innanzi tutto per rendermi conto se era fisicamente in grado di poter svolgere il lavoro. Poi per prevenire qualsivoglia suo rifiuto a priori, rifugiandosi dietro l'alibi dell'impossibilità fisica. Sapevo che lui, usando una sola mano, era comunque avvantaggiato dall'abitudine. Quindi quello che per me era difficilissimo, per lui poteva essere solo scomodo. Inoltre io usavo esclusivamente una mano. Lui si aiutava anche con il braccio.
Lo lasciai alla taglierina e tornai al mio lavoro, dietro alla parete a vetri della sala macchine, osservandolo di sottecchi.
Dopo poco lo vidi uscire. Devo ammettere che il mio primo pensiero fu che stesse andando ad imboscarsi. Però feci violenza su me stesso e non lo rincorsi per chiedergli dove stesse andando. Non potevo impostare il nostro rapporto di collaborazione sulla fiducia e sulla responsabilizzazione per poi rincorrerlo e chiederli dove stesse andando, con modi bruschi ed autoritari.
In fin dei conti aveva anche lui tutti i diritti di andare in bagno.
Rimasi in trepidante attesa. Iniziavo già a scoraggiarmi.
Quand'ecco che ricomparve. Trasportava, con una sola mano, un grosso bidone di cartone. Eccellente idea. Le striscioline prodotte dalla taglierina erano così tante che, senza quel bidone, avrebbero in breve tempo ricoperto il pavimento della sala macchine. Tanto che, da allora in poi, quel bidone divenne parte integrante dell'arredamento del CED.
Ritornai al mio lavoro soddisfatto. Mi pentii di aver dubitato di lui e fui contento di aver resistito alla tentazione iniziale e non averlo sottoposto ad interrogatori.
Un atteggiamento analogo lo ebbe a mezzogiorno: Lo vidi sparire. Ricomparve solo quando tornai dal pranzo. Quando gliene chiesi il motivo mi rammentò che gli operai andavano a mangiare mezz'ora prima degli impiegati. Al che gli chiesi di andare a mangiare alle 12.30, il turno degli impiegati quando lavorava per il CED.
Da quel giorno in poi iniziò la nostra collaborazione. Che procedette sempre meglio. Filando liscia e senza intoppi.
Devo dire che commisi, in buona fede, degli errori.
Ad esempio comprai un pacchetto delle sigarette da lui abitudinalmente fumate e glielo misi a disposizione. Insieme ai miei gettoni del caffè. La motivazione ufficiale era che lui mi stava facendo un grosso favore, e quindi era mio ospite. La verità era che cercavo di utilizzare il classico metodo della gratificazione, adottato dagli ammaestratori. Ad ogni risultato conseguito gli davo lo "zuccherino".
Sbagliavo. E me lo fece capire. Mi lasciava, intonso, il pacchetto sulla mia scrivania e non prendeva mai i miei gettoni del caffè, in mia assenza. Accettava il caffè solo se glielo offrivo e lo prendevo con lui.
Capii e smisi.
Poco dopo entrammo in confidenza. Mi parlava della sua vita; spesso stuzzicato da mie domande indirette. Volevo cercare di capirlo e conoscerlo il più possibile. Tempo addietro aveva partecipato al festival di S. Remo. All'inizio credevo che fosse una balla, ma sia i colleghi che la sua bella voce contribuirono a convincermi. Era un piacere sentirlo cantare. Anche se dietro i doppi vetri della sala macchine.
Voleva corteggiare una fanciulla che aveva visto un paio di volte. Quando si trattò di poterla sentire telefonicamente il padre di lei gli intimò, con modi bruschi e villani, di non farsi più sentire. Stronzo!
E così mi toccò anche scrivere la minuta di una lettera sentimentale che chiedeva, con molta discrezione, un appuntamento.
Dovetti anche cercare di dare risposte chiarificanti sull'atteggiamento del padre. Devo ammettere che non ebbi il coraggio di sottoporgli una motivazione, a mio avviso tra le più probabili. La discriminazione degli handicappati.
Mi rifugiai dietro un'ipocrita "non so, non riesco a capire".
Con il passare delle settimane accaddero due cose. La prima fu che la mole dei tabulati era scomparsa. Mi toccò andare ad elemosinare nei vari uffici quello che prima avrei volentieri scaraventato dietro a chi me lo portava.
Ovviamente con scarsi risultati quantitativi.
La seconda cosa fu che i miei colleghi, vista la recente apertura di una nuova via, mi vennero a chiedere se potevano utilizzare anche loro M. per qualche lavoretto.
Siccome, paradossalmente, il mio maggiore problema era quello che rimanesse senza lavori da fare, fui ben lesto nell'assecondare tali richieste.
Volevo "istituzionalizzare" la sua funzione con una nutrita mole di lavoro da svolgere, tale da garantire la sua presenza presso di me.
Quindi le richieste dei miei colleghi mi tornavano utilissime.
Ricordo un paio di episodi. Una mia collega della contabilità mi chiese se era possibile far imbustare da M. gli estratti conti. Sinceramente rimasi molto perplesso. Provai a fare la prova "mano-in-tasca" e il responso fu assolutamente negativo. Si trattava di raccogliere più fogli con indirizzo comune, piegarli esattamente in tre parti, imbustarli e sigillarli. Fu la mia collega che vinse le mie titubanze consigliandomi di fare provare a lui.
Confidava nell'agilità acquisita dall'abitudine.
Aveva pienamente ragione. Utilizzando i soliti metodi di responsabilizzazione M. riuscì a farcela. Il lavoro fu svolto con estrema flemma, ma fu svolto a puntino.
Il responsabile di marketing invece aveva bisogno di far timbrare dei biglietti d'invito per una fiera. Mi chiese se poteva farlo fare a M.
Ovviamente accondiscesi, a patto che gli illustrasse lui il lavoro, motivandoglielo e gratificandolo in caso di buona riuscita.
Il responsabile di marketing fece tutto ciò con tanto impegno che M. mi confidò di avere il sospetto di essere stato preso in giro. Non riusciva a capacitarsi del motivo per cui, se lui non avesse timbrato quei biglietti, non l'avrebbe fatto nessuno; se non fossero stati mandati ai vari clienti nessuno sarebbe andato alla fiera; il tutto con ripercussioni catastrofiche sulle nostre vendite annuali nonché sui nostri stipendi e posti di lavoro.
Inoltre si stupiva che il responsabile di marketing gli avesse fatto omaggio di un paio di biglietti per andare a vedere, a Bologna , una fiera del settore.
E io giù a spiegargli, con la dovuta cautela, che vi erano lavori che richiedevano molto tempo e che non si riusciva a svolgere se non a patto di trascurare cose ben più importanti.
Poi, in separata sede, pregai il Responsabile di Marketing di non esagerare eccessivamente in futuro.
Insomma un successone! Ero riuscito a trasformare una spesa in un ricavo ed a salvare capra e cavoli.
Quella che prima era considerata una persona non stimata, non utilizzata, annoiata ora era divenuta utile ed importante ai fini aziendali. Che tutti salutavano e consideravano, se pur con l'egoistico intendimento di accattivarsene le simpatie per poterlo utilizzare alla prima occasione.
Il mio unico merito, tendo a sottolinearlo, era stato quello di responsabilizzarlo. Il mio vantaggio era stato quello di poter partire da zero.
Ero soddisfattissimo di lui. Sia professionalmente che personalmente.
Purtroppo le conseguenze di tutto ciò furono, a dir poco, sconcertati.
Il nostro Direttore Generale era uno strano tipo. Di origine campana, mi pare di Salerno, si era trasferito sin da giovane in America, acquisendone in seguito la cittadinanza. Era divenuto dirigente presso la multinazionale da cui dipendevamo ed era stato destinato, dall'America, alla nostra succursale.
Era soprannominato il "babbo". Parlava con un buffo accento italoamericano, come quello che siamo abituati a sentire nella bocca degli italoamericani nelle varie interpretazioni cinematografiche.
Gestiva l'azienda in uno strano modo. Camminando. Era perennemente in giro. Dappertutto. Sempre presente nel momento meno opportuno, a nostro avviso.
Più opportuno secondo il suo modo di vedere.
La sua domanda preferita era: "...Qual è il problema?" Ottima domanda che spesso faceva trovare una soluzione direttamente dal questuante. Era acutissimo e non gli sfuggiva mai niente. E notò anche M.
Andò prontamente dal direttore dello stabilimento e gli pose, a bruciapelo, la fatidica domanda: "...Come mai M. che prima non faceva nulla, adesso lavora? E come mai tu, in dieci anni, non ci sei mai riuscito"?
Sollecitato così bruscamente il direttore di stabilimento non seppe cosa dire.
Però, seppe cosa fare. Punto sul vivo andò dal nostro benamato capo, Responsabile Amministrativo detto il "Puffo saggio" a causa della statura e dell'astuzia, e con bel garbo, con l'aria di chi vuol fare un regalo, disse: "..Visto che M. con te lavora, te lo passo in carico. Includilo pure nel tuo budget. Io lo depenno dal mio...", scaricandogli addosso, ipso fatto, il barile.
Il "Puffo saggio" diede un balzo ma, memore di anni d'esperienza, scansò immediatamente il barile che stava rotolando velocemente verso di lui. Non so che pensieri lo spinsero a far ciò. Forse temeva di doversi prendere in carico una persona che poteva, di lì a poco, rivelarsi negativa, come lo era stato nel decennio precedente. Oppure aveva altre idee in merito al budget di quell'anno e non intendeva modificarlo. Fatto sta che mi chiamò e, con molto garbo, mi comunicò che dovevamo fare a meno di M., raccontandomi l'episodio del babbo e del relativo barile rotolante.
Ci rimasi malissimo. Per un po' temporeggiai ma poi dovetti piegarmi.
A nulla valsero i miei disperati accenni alla mole di lavoro, esagerata alla bisogna, che a questo punto sarebbe rimasta inevasa. Avrei avuto bisogno di una prova di forza che perdurasse nel tempo. E di tempo non ne avevo.
M. tornò quindi in stabilimento, a fare quello che faceva prima. Nulla.
Fortunatamente per me non feci a tempo a vedere tutto l'amaro epilogo di questa vicenda. Mi fecero un'offerta professionale valida e me ne andai da quell'azienda. Per motivazioni che nulla avevano a che fare con tutto ciò.
Ma io rimasi lo stesso con l'amaro in bocca.
2 -XI- 1989
Maurizio Ongaro: My Fair Lady.
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